Tribunale di Cremona del 29 Maggio2012
Conto corrente – Prescrizione – Disapplicazione Cass. 24418/10 – prescrizione decennale decorre dall’atto interruttivo dei termini –onere in capo al correntista di provare illegittimità producendo contratto – art. 210 c.p.c. – validità clausola uso piazza prima della L. 154/92 – CMS – nullità se applicata al massimo scoperto – c/accessori – illegittimità giroconto competenze
Risulta sempre prescritta la ripetizione degli addebiti antecedenti i dieci anni dall’interruzione dei termini prescrizionali.Poiché infatti l’addebito degli interessi in conto costituisce pagamento ai sensi dell’art. 1852 c.c., i termini prescrizionali decorrono dalle singole annotazioni in conto e non deve essere svolta l’analisi delle rimesse solutorie e ripristinatorie indicata dalla Cassazione n. 24418/10, che non si condivide.
Il correntista attore ha l’onere di produrre il contratto per provare la nullità delle clausole di determinazione degli interessi. L’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c. non deve essere concesso se l’atto di citazione evidenzia che l’attore era in possesso del contratto o se tale richiesta rende la causa esplorativa.
La clausola di riferimento agli “usi piazza” è legittima prima della l. 154/92, per il periodo successivo la comunicazione dei tassi negli estratti conto è sufficiente a stabilirne la legittimità.
Per quanto riguarda la CMS, essa è nulla per difetto di causa se applicata sull’utilizzato e non sull’importo del fido (cfr. Cass. 870/06).
L’addebito delle competenze dei conti accessori sul conto ordinario è legittima solo se prevista da apposita pattuizione scritta.
Per l’effetto la situazione pare ritornata quella che si era realizzata all’indomani della sentenza SS.UU. 24418/2010, a mente della quale la prescrizione del diritto del cliente alla ripetizione delle somme illecitamente riscosse dalla banca doveva decorrere dalla chiusura del conto.
Tuttavia la motivazione di quella sentenza non può assolutamente essere seguita.
Essa richiama la nota distinzione tra atti ripristinatori ed atti solutori, elaborata però ad altri fini, segnatamente allo scopo di distinguere le rimesse non revocabili, perché volte solo a riespandere il fido, da quelle revocabili, perché effettuate su di un conto scoperto e, quindi, volte ad estinguere un debito effettivo verso la banca.
Quella distinzione non è utile perché, in ogni caso, l’addebito degli interessi da parte della banca non ha mai l’effetto, tipico di ogni rimessa, di riespandere il fido, bensì e all’opposto quello di aumentare l’indebitamento del cliente e di ridurre la disponibilità di denaro in suo favore.
Se poi si vuol sostenere che l’addebito degli interessi, periodicamente effettuato dalla banca, non costituisce pagamento, tale assunto cozza irrimediabilmente col disposto dell’art. 1852 c.c., a mente del quale, nelle operazioni regolate in conto corrente, il cliente può sempre disporre del saldo risultante in proprio favore.
Quel saldo però discende dalla somma delle operazioni attive e di quelle passive, tra le quali rientra anche l’addebito periodico degli interessi, in un gioco di continue compensazioni, le quali costituiscono l’essenza del rapporto regolato in conto corrente e, come noto, costituiscono una forma di pagamento o, meglio, una delle forme di estinzione satisfattiva di un’obbligazione.
Essendo quindi l’atto introduttivo del giudizio stato notificato il 29.05.2004, dovrà ritenersi prescritta la ripetizione di ogni addebito antecedente al 29.05.1994.
Va dichiarata la nullità del contratto n. 4356/1, in quanto non concluso in forma scritta, nonostante alla data della sua apertura (1994) fosse già in vigore l’art. 117 T.U.B., che quel requisito richiede.
La circostanza non è stata negata dalla banca convenuta, è la banca che si è limitata a dedurre che, essendo il rapporto de quo accessorio agli altri due conti, il requisito di forma doveva ritenersi soddisfatto dai contratti portanti.
In realtà un tale assunto non trova alcun appiglio né in disposizioni di legge, né in orientamenti giurisprudenziali, e si pone anzi in aperto contrasto con la chiara dizione del T.U.B., per cui va dichiarata la nullità del contratto in questione.
Con riguardo invece alla previsione di interessi ultralegali, non può accogliersi l’eccezione di parte attrice, di difetto di forma scritta ex art. 1284 c.c.
Innanzitutto non sono stati allegati i contratti, dai quali desumere la fondatezza o meno dell’assunto, mentre era preciso onere dell’attrice produrli a supporto delle proprie allegazioni.
Né al difetto potrebbe sopperirsi tramite un ordine di esibizione, in quanto o le doglianze sollevate in citazione sono state fatte con cognizione di causa, cioè dopo studio dei contratti, che quindi erano già in possesso di parte attrice, che doveva dunque produrli; oppure, come a volte accade in questo tipo di cause, parte attrice ha agito sollevando le solite eccezioni di routine, senza previa disamina dei contratti, ma allora è l’intera causa ad essere esplorativa.
La convenuta ha replicato, con allegazione non specificamente contestata, che i contratti n. 1491/1 e 3630/1 contenevano una specifica clausola n. 7, la quale, per la determinazione del tasso di interesse applicabile, faceva rinvio alle condizioni usualmente praticate dalle aziende di credito sulla piazza.
Detta clausola doveva ritenersi valida ed efficace alla luce della normativa anteriore alla legge sulla trasparenza L. 154/1992, poi trasfusa nell’art. 117 T.U.B., essendo i contratti de quibus stipulati l’uno negli anni 70, l’altro nel 1990.
L’eccezione potrebbe semmai avere un pregio per il periodo successivo all’entrata in vigore della detta legge, per l’ipotesi in cui la banca non vi si fosse comunque adeguata, e tuttavia risulta – dalla CTU - che la convenuta si sia attenuta a quanto prescritto dall’art. 8 L. 154/1992 e alle indicazioni di cui alla comunicazione 24.05.1992 della Banca d’Italia, a mente dei quali i nuovi oneri imposti dalla trasparenza potevano dirsi soddisfatti dall’invio periodico al cliente, almeno una volta all’anno, di comunicazione scritta contenente enunciazione precisa, conforme ai nuovi requisiti, delle condizioni contrattuali.
Discorso diverso deve farsi con riferimento alle commissioni di massimo scoperto: la giurisprudenza ha definitivamente chiarito che dette commissioni rappresentano il compenso alla banca, in caso di fido, per l’impegno a tenere a disposizione del cliente una certa somma, sicchè essa non è legittima se applicata alle somme concretamente utilizzate dal cliente, in quanto su queste vi sono già gli interessi corrispettivi a compensare la banca, ma è legittima solo se applicata alla parte di fido non utilizzata. (cfr Cass. 870/2006, oltre a Trib. Milano 04.07.2002, Trib. Lecce 06.03.2006 n. 422).
Infine non può ritenersi legittima nemmeno la condotta della banca, laddove addebitava gli interessi e c.m.s. maturati sui conti correnti 3630 e 4356 sul conto 1491, non essendovi alcuna ragione – salvo apposita convenzione - per cui gli interessi maturati in un conto debbano essere addebitati in un altro, se non la evidente volontà della banca di lucrare maggiori somme.
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